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San Pietro al monte Calino

Il Libro dei conti per la Chiesa di San Pietro in Calino si apre con la data del 1683 ma da altre notizie sappiamo che la cappella sul monte è ben più antica. Viene citata addirittura in un testamento del 1296, allorché una certa Gisla, moglie di Bertolo de Cazoli, del territorio dì Riva, lascia una cazza d'olio alla chiesa dì San Pietro di «Runzono», ovvero di Rancione. Le stesse caratteristiche architettoniche dimostrano il semplice impianto romanico e altri indizi inducono a ritenere che l'interno fosse in parte affrescato con figurazioni non certo recenti. La chiesa è stata più volte rimaneggiata, sia per le esigenze del tempo e del posto che per l'utilità dei fedeli. Ne è un esempio la data del 1590 conservata sul retro dell'edificio sopra una porta murata, la quale documenta un intervento di un certo rilievo. Anche le pagine dei libri massariali registrano le piccole e grandi opere in favore della chiesa e del romitorio. Frequenti paiono gli esborsi per coppi e legna necessari alla sistemazione del tetto che le intemperie dell'inverno non mancavano di danneggiare; così come di anno in anno figurano acquisti di qualche paramento o interventi all'interno o all'esterno del complesso. Nel resoconto del 1683 si parla ad esempio di «scuri alle finestre», di un uscio, dell'apertura di una mezzaluna con relativa ferriata, della sistemazione della camera che serve da sacrestia, della costruzione di due archi fuori dalla chiesa e di una  scala per andare nell'orto. Perfino la «soga» per la campana ogni tanto doveva essere sostituita. Vengono segnate con diligenza le opere dei calcheroti e di chi ha portato materiale sul colle, il lavoro del fabbro falegname, le cibarie offerte ai manovali. Nel 1727 l'eremita Giovanni Santoni presenta il conto per un «acquasantarello» e per altre opere da «muraro» che comprendono l'estrazione della sabbia, la preparazione della calce per fare il pavimento e mettere in opera «le laste sotto la logia di San Pero». Quando avanza qualcosa, una manciata di troni finisce in opere pie. Quasi sempre a beneficio di chiese e altari, soprattutto della parrocchiale di Tenno; più raramente per soddisfare i bisogni dei meno abbienti o di qualche "convertito" che arriva sul monte in penitenza.

Come altre cappelle montane o rurali, San Pietro normalmente era custodita da eremiti che dall'alto del Calino potevano ammirare l'intero Sommolago. Quando alla fine di luglio del 1694 padre Virgilio Ruffini si reca sul posto per la visita pastorale descrive infatti la bellezza del posto dal quale si può godere un «amoenissimus prospectus in subiectam planitiem arcensem atque ripensem», ovvero un bellissimo panorama sulla piana di Arco e di Riva. Lo stesso Ruffini annota inoltre che presso la cappella «in supercilio montis, qui ab ipso sacello mons sancti Petri nuncupatur» [sulla sommità del monte, che trae il nome dalla chiesetta di San Pietro], era stato costruito un edificio «pro eremicola praesertim satis commodum» [un piccolo eremo abbastanza comodo]. La chiesa era inoltre beneficiata di un legato di sei messe annue e dotata di una stanza per dare rifugio ai sacerdoti quando si re-cavano sul monte per celebrare o per controllare gli eremiti.

Sono tante le annotazioni relative agli eremiti, alcune in positivo, altre preoccupate per una condotta non sempre irreprensibile. Oltre al rispetto dei dettami della chiesa si chiedeva loro di sorvegliare il bosco e il piccolo coltivo circostante, così da salvaguardare il patrimonio della comunità e della stessa cappella. Non erano comunque tenuti all'amministrazione. A questa pensavano i massari, secondo la disponibilità e la capacità degli uomini delle Ville del Monte che si passavano la responsabilità rimanendo garanti gli uni degli altri. I resoconti degli anni attorno al 1740, ordinatamente trascritti dal cappellano Bernardino Bottesi, registrano la proprietà di quattro campi, per una resa di quasi cinquanta troni annui; il diritto a percepire una piccola somma per oneri livellari e una resa di circa cento troni derivante da censi non ancora affrancati. Alla fine del Settecento i tempi stavano comunque cambiando e il piccolo edificio stanco dei secoli sembra involversi nell'oblio, tanto che il massaro del 1805 scriveva che la chiesa «sul monte della vicinia» appariva ormai «poco frequentata».

I registri in effetti datano l'ultimo resoconto al 1811, quando i «fabbricieri» della pieve di Tenno e delle relative filiali, assieme al sindaco Domenico Brunati e al parroco Giambatta Valenti, ricevono il rendiconto da Giovanni Marocchi, «ultimo massaro della chiesa di San Pietro sul Monte Calino». I beni così passano direttamente in mano alla parrocchia, che come ultimo atto registra l'entrata maturata fino a San Michele del 1808 e l'uscita fino al mese di agosto del 1811.

Con le disposizioni napoleoniche l'edificio sacro veniva chiuso al culto e secolarizzato; ridotto anzi a rifugio per uomini e bestie. «Sotto il Governo Italico», scriveva infatti l'arciprete di Tenno, «fu chiusa la chiesa di San Pietro situata sul monte Calino in questa parrocchia, e in seguito, io stesso, fatto ciò presente a Sua Reverendissima di felice memoria, ho ottenuto che potesse essere secolarizzata. Non si consentì però mai a uso profano pubblicamente, anzi restò sempre l'altare e la pietra sacra immobile; violentate però le porte per molto tempo, anzi per più anni, restò aperta a ricovero di chi vi accorreva e forse anche di animali. Ora questa popolazione ottenne di riaprirla, e quindi si è anche decentemente ristaurata; stante però la secolarizzazione intervenuta da parte vescovile, e molto più anche la possibilità che possa essere polluta, sebbene non sia tale polluzione cognita e molto meno notoria, e per notorietà del ricovero cui servì, prima di fare in questa alcuna funzione si fa dovere di partecipare il tutto a Vostra Signoria Illustrissima, onde vegga se sia necessario o confacente nuova benedizione o riconciliazione».

La risposta non si fece attendere, nel senso che autorizzava il Valenti a una nuova benedizione secondo il rituale romano. Ma la «riconciliazione» della chiesa, che seguiva il restauro, non era certo in grado di riportare le antiche usanze. Gli atti dell'Ottocento infatti si limitano solo a qualche cenno. Sul monte Calino la campanella suonava soltanto per le due messe annue; beni e rendite venivano computati con quelli della parrocchiale.

La chiesa «bianca come 'late», ricordata nei versi dialettali del poeta Giacomo Floriani, risorgeva a partire dal secondo dopoguerra, allorché la SAT di Riva acquistava la proprietà di San Pietro attrezzandola a rifugio alpino. Secondo le testimonianze a quella data l'interno mostrava ancora alcuni affreschi nel catino absidale e un'Ultima Cena sulla parete a sinistra della piccola navata coperta con semplici travature di legno e coppi. I restauri successivi hanno steso però sulle pareti un intonaco grezzo, cancellando i segni delle precedenti devozioni. I discutibili interventi hanno in ogni modo permesso all'antico edificio di continuare ad accogliere i visitatori che come un tempo, ma per altri scopi, si recano sulla montagna. La campanella ora suona comunque raramente e il poco rimasto degli arredi, fra cui due belle statue lignee raffiguranti i Santi Pietro e Paolo, è stato trasferito in altra sede.

Di Mauro Grazioli, tratto da "Ecclesie, le chiese nel Sommolago", ed. Il Sommolago, Arco, TN. Giubileo 2000. 
 


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